Electronic Sounds (In English)

Electronic Sounds (In English)

Has everything I think already been written or said by others? Or perhaps there is still more to discover? Is there something beyond these transistors and valves that nail me to the ground, where I branch out like a cypress?

Now that an industrial, almost ancestral rhythm, lulls my sight, an electric impulse speaks again to my dreams: you have forgotten about Nature, which waits to be better heard. You must listen carefully, and just as it sings, you must harmonize. Then you will return among men and try to remember not its song, perfect and unrepeatable, but the memory of its beauty. Oh yes.

I run to embrace nature, but the more I look at it, the more I see it reflecting my deformed image, mirrored in its electronic eyes.

Marco Di Caprio

Il Tesoro e il Mistero

Il Tesoro e il Mistero

[Lirica tratta dal romanzo Il Mistero dell’Isola di Pasqua. Gli archeologi hanno trovato un’iscrizione misteriosa che potrebbe condurli a scoprire il Mistero dell’Isola di Pasqua]

Caro amico il tesoro d’Hotu Matua
è reliquia davvero importante,
però non brilla nella notte fatua.

E’ brillante proprio come un diamante,
ma alla fin’è un oggetto terreno;
è divino solo da luccicante.

Il mistero sì che di luce è pieno,
ed è stato Dio Onnipotente,
per un grande monito ultraterreno,

a mandarlo con soffio süadente.
Quegli stronzi ricchezze mai vedute
vogliono togliermi con un fendente,

ma io son furbo e, alla salute
di ‘sti scemi, ho nascosto il mistero,
baciato da magie sconosciute,

della verace luce messaggero.
Se il mio parlàr coperto intendi,
di Dio amante sei col pensiero,

e il chiarore del mistero attendi.
Abbraccia il forziere soavemente,
poi con mano suadente scendi

e laggiù, sul fondo, lïevemente
e quïescente una dolce voce
finalmente sentirai, impaziente.

La mi’ dolce voce freme veloce
nell’attesa di veder’i tuoi occhi,
e canta e fischïa non sottovoce,

e or’implora e risuona in rintocchi,
nel tuo sguardo di fine amante,
affinché di vera gioia strabocchi.

Io amo solo te che sei sognante
d’ascoltàr la mi’ alma musicale
e della verace armonia il sembiante.

We’re Only In It For The Money

Dov’è la mia cara musa? E lei, lei è andata via. Non mi parla più, non mi schiude più i suoi lamenti e le perturbazioni del suo occhio celeste. E lui, il nuovo poeta che hai prescelto – un magnate americano dell’industria discografica – ti ha evocato a sé prima con succulenti doni, con oli, incensi e profumi. E poi, quando era sicuro di averti accarezzato con la sua sagacia da mendicante, ti ha legato e seviziato, poi ti ha venduto al mercato del paese. Belle poesie? Volete comprare belle poesie? Il poeta nuovo è un rapper, un artista hip-hop, che ti ha costretto a un canto uniforme, sfiorito, sfibrato e sventrato. Un canto che è una sterile stereofonia in una vibrante cacofonia, che avvilisce la poesia e l’arte in un oblio più lungo che venticinque secoli. Caro poeta nuovo, se gli uomini primitivi ti avessero ascoltato, ti avrebbero preso a sassate per il tuo primitivismo musicale.

Cara Musa mia, il tuo bel canto con trilli striduli e stridenti è progressivamente calato, fino a quando le tue povere corde vocali, ormai seviziate, sono diventate mute. L’amore che provo per te nella mente mi ricorda ancora tristemente del tuo sterile e stereofonico vibrare di vibrafono, che si ribellava invano al tuo carnefice. Il poeta nuovo, oltre che soldi, è sempre più avido d’ignoranza, come se non ne avesse già abbastanza.

O quanto corto è il dire, quanto è fioco il mio parlare rispetto alla triste impressione che ebbi della tua visione, che, ora quasi obliata, ippica corre nell’ippocampo della mia sterile dialettica. Ora, ora che sei muta, mia sanguinosa musa, che cosa dire? Ormai che procuba dormi nella nella notte poco mistica della nuova umanità, forse dall’amore, dalle gioie e dalle tristezze dell’arte dovrei nascondermi? Me ne vado, prigioniero del tuo amore, non so dove. E da solo, con il tuo ricordo, prigioniero della mia sterile frenesia, prendo a brandelli la parola, che nel suo segreto schiudersi dà voce al mio pianto per la tua scomparsa.

Io non ho più nulla da offrire ma molto da soffrire. Il mio canto non ricorda nient’altro che le ultime tue parole, cara Musa, avvolte in una sterile stereofonia, che risuona metalliche strida. Dal momento che nessuno vorrà lamentare meglio di me la tua scomparsa, perché è troppo impegnato nei suoi vani commerci, imbratto il mio canto di un arcobaleno di mille colori. Mille colori caleidoscopici, frenetici e pungenti, che neanche riescono a svegliarmi dall’incubo della vita.

Marco Di Caprio

Electric Funeral (Reprise) bis [2020]

«Ancor ne li occhi, ond’escon le faville 

che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, 

guarderei presso e fiso, 

per vendicar lo fuggir che mi face; 

e poi le renderei con amor pace.» 

(Dante, Così nel mio parlar voglio essere aspro

Una casa avvolta nel buio. Mi giro e vago per questi corridoi. Aria fresca sfiora la stanza livida di umori grigiastri. Aria fresca che ammuffisce tra funghi pluricellulari. Una luce di pollini sospesi nell’aria in una lunghezza d’onda tra i 790 e 430 Hertz di frequenza. Rodospina sospesa nella pena capitale della mia triste dialettica. 

Ora ti chiedo? Che cosa sei per me, mio caro nonno K.? Sei forse la camera in cui giacqui nella dolcezza dei miei tristi sogni? Sei forse la camera della mia frenesia che vaga nell’immersione di uno psichedelico tremore? Sei forse la camera in cui siedo al buio, la camera che risuona di sprezzanti disarmonie. La mia magione è un viluppo di colori compulsivi e corroboranti della dialettica del mio triste spirito. 

La luce fendente di una luna gelida trapassa con i suoi spiragli il salotto dove insieme giacemmo nell’illusione della nostra felice esistenza. Caro nonno, credimi, credimi, mi vorrei rifugiare tra le tue braccia, ma stasera, stasera mi sento così solo quasi da sentirmi in compagnia del nulla. Sono in cerca di una camera in cui di rifugiarmi dai mille spettri della mia solitudine, mille spettri che mi inseguono e mi chiedono conforto, mi cercano e mi chiedono di fargli compagnia. Ecco, ora vedo fulmini! Fulmini di accecante bagliore, che abbagliano il mio delirio, tremante di un sincopato olocausto che vibra nella mia mente piangente. 

Dov’è la mia cara Musa? E lei, lei è andata via. Non mi parla più, non mi schiude più i suoi lamenti e le perturbazioni del suo occhio, che incurvato mi deride. E lui, il nuovo poeta che hai prescelto – un magnate americano dell’industria discografica – ti ha evocato a sé prima con succulenti doni, con oli, incensi e profumi. E poi, quando era sicuro di averti accarezzato con la sua sagacia da mendicante, ti ha legato e seviziato, poi ti ha venduto al mercato del paese. Belle poesie? Volete comprare belle poesie? Il poeta nuovo ti ha costretto a un canto uniforme, sfiorito, sfibrato e sventrato. Un canto che era una sterile stereofonia in una vibrante cacofonia, che avvilisce la poesia e l’arte in un oblio più lungo che venticinque secoli. Il tuo canto con trilli striduli e stridenti è progressivamente calato, fino a quando le tue povere corde vocali, ormai seviziate, sono diventate mute. Cara Musa mia, l’amore che provo per te nella mente mi ragiona ancora tristemente del tuo sterile e stereofonico vibrare di vibrafono.  

O quanto corto è il dire, quanto è fioco il mio parlare rispetto alla triste impressione che ebbi di quella visione, che, ora quasi obliata, ippica corre nell’ippocampo della mia sterile dialettica. Ora, ora che sei muta, mia sanguinosa Musa, che cosa dire? Ormai che procuba dormi nella nella notte poco mistica dell’umanità, forse dall’amore e dalla gioia dovrei ritrarmi e dal momento che sono morto come morto ti dovrei rispondere? Me ne vado, prigioniero d’amore, non so dove, anzi, prigioniero della mia sterile frenesia, prendo a brandelli la parola, che nel suo segreto schiudersi viaggia verso la passione dei miei deliri. 

Io non ho più nulla da offrire ma molto da soffrire. Il mio canto non ricorda nient’altro che le ultime tue parole, cara Musa, avvolte in una sterile stereofonia, che risuona metalliche strida. Strida che avviliscono la poesia e l’arte, durante l’oblio dei nostri secoli, all’interno di un segreto che si schiude in una vana litania. Mille colori, mille colori, che si invertono e investono immagini sfocate così pungenti che potrebbero svegliarmi dall’incubo della vita. 

Ora nonno, parlami, nonno, dove sei? Un appiglio, una boa, una qualunque risposta. No, litania che non ha mai fine, litania che corre e mi guarda con occhi ormai consunti da lacrime che non hanno più vigore. Lacrime che seccano prima di ritornare a risplendere negli effluvi più sinceri e più liberi dei miei occhi. Il dolore è ormai cristallizzato in urli peripatetici, patetici e così striduli, che nel rifrangersi dei suoi infrasuoni non odo nient’altro che silenzio. Il silenzio che sento non era nient’altro se non la sommessa e soffocante tua richiesta di dialogo. Io ti guardavo, sì, con le lacrime agli occhi. I tuoi occhi pallidi e singhiozzanti della tua preoccupazione, i tuoi occhi così simili ai miei, che come uno specchio mi hanno avvolto, perché da quando mirai nei tuoi occhi non più mio fui, ma fui di qualcun altro. Specchio, specchio, da quando ti miro nella camera della mia mente, mi hanno ucciso i sospiri dal profondo. Io mi allontano, e correndo, tu mi insegui. 

«M., che cosa c’è? Che cosa ti succede?» 

«Non voglio che te ne vai, non voglio» ti ripetevo, quasi singhiozzante. 

«Non ti preoccupare, il nonno, il nonno campa parecchio, se tu lo vorrai far campare. Sai, M., in questa tua autocommiserazione stai affondando e affondando sempre di più nel senso della vita. In una vita che fluisce come un torrente impetuoso, che tutto travolge e nulla lascia dietro di sé. Non affondare, non affondare e rimani qui, rimani qui ad ascoltare le vibrazioni della vera bellezza con me.»

«Io non capisco, sto diventando sempre più chiuso, serrato in un incubo, in una notte che perpetua fluisce nell’attesa di un mio risveglio. Lo so che, fin quando non finirà la terribile notte della vita, io sarò destinato a essere sballottato sempre di qua e di là.» 

«Siamo tutti sballottati, ma dobbiamo lottare. Ascolta la Natura, ascolta i dolci canti che ispira in questa serata. Quando Amore mi spira, io annoto e a quel modo che detta io ti parlo. Non c’è nulla, nulla che possa alleviare questi tempi oscuri, se non la Natura. Ascolta la beatitudine di quest’attimo, ascolta la pace di quest’istante, ascolta la bellezza che tocca il tuo corpo con la mia mente. La Natura, la Natura mi dice che non devi più fuggire e non devi più nasconderti da te stesso. La Natura mi dice che devi lottare nella beatitudine della sua eterna pulsione di vita.» 

«La mia volontà è debole, nonno. Come sconfiggere, come sconfiggere lo spirito del tempo, che ha spezzato l’arte sotto il suo giogo. Come sconfiggere lo spirito del tempo, che tutto spezza e niente sottrae alla forza centripeta del suo vortice?» 

«Non parlare, non parlare e resta in ascolto. Non cercare nulla al di fuori di te stesso, non aspettarti che gli altri ti guardino ma prova a guardare, a guardare nella tua essenza. Quel ruscello da te immaginato, quelle piante che a margine ti accarezzano in quella foresta acquattata dietro a quella montagna. Non le vedi quelle piante? Non rinunciare, non rinunciare alla libertà della vera bellezza. Non importa se lo spirito del tempo ti ha serrato ogni opportunità, perché là c’è, là c’è la più bella ninfa che si possa desiderare, immersa nella sua nudità, immersa nella sua bella nudità, pronta a cantare e a risuonare del canto che le ho insegnato. Non deturparla con i liquami e i rottami dello spirito del tempo.

Non chiudere la tua mente. Non dividere gli emisferi della tua mente come quelli di un cieco o di un sordo, che non possono o non vogliono più sentire. Non ti perdere in frammenti e in scaglie di caleidoscopici vortici, inabissati tra carta straccia, dadi, numeri e cabale babilonesi. Non ti perdere nel fetido vortice che ha il nome di Commercio, perché questo nome intinge i suoi responsi dal sangue delle nazioni e delle genti. Non ti perdere in vane speculazioni, che avvolgono e riavvolgono noi automi in servi di un ritmo ossessivo, che ci fa omologare, mercificare e liquefare il nostro soave incubo della vita. 

Caro M., io ho vissuto, e ho vissuto tutti gli attimi, gli amori, i dolori, le notti più buie e più lucenti, ma ho vissuto e l’ho fatto a modo mio, ascoltando la levigata voce della Natura, che mi chiedeva di abbracciarla, di accarezzarla, di rimanere abbandonato tra le sue braccia. Mai più ho vissuto come quando ho esultato amandoti, e ricordati per amor mio di non essere succube dei padri padroni e di nessun totem che possa uccidere i tuoi istinti.» 

«Come potrò spegnere tutte le passioni, tutti i dialoghi, tutte le risposte che mi mancano, ora che la tua visione sta per svanire? In questa notte oscura mi sento, mi sento che non c’è modo per dirti addio. Lo so che molti amori prima di noi hanno sofferto la stessa lontananza, e lo stesso ancora stanno implorando conforto. Ancora mi ricordo, ancora mi ricordo di quando esperivo frenetico un male oscuro che mi avvinghiava con le sue unghie. Mentre eravamo insieme, distesi sul letto, tu mi guardavi assonnato, con il tuo occhio socchiuso, e mi confortavi. I tuoi capelli sul cuscino come pietre d’oro dormienti, sì, ancora li vedo. 

Dopo che la tua vita si è spenta, la natura ha temuto di morire, ma la foresta, gli alberi e il bosco ancora cantano lievi e dolci sinfonie nel tuo ricordo. Dopo che ho visto il tuo occhio spegnersi nel terrore della distanza, ho capito che non c’è modo di dirti addio. E ora vago nel tempo. E ora vago in un tempo sospeso che dissolve i miei sospiri al vento. Quando cammino, appena giro l’angolo so che non ci sarà il tuo viso. Però i miei passi, i miei passi rimangono ancora nella speranza di ritrovarti lì, da qualche parte, ancora ad aspettare il mio sorriso». 

Mi manca una certa naturalezza. Mi sono voluto divincolare dall’autorità patriarcale, che è il totem della mia castrazione. Forse è per questo che non ho seguito i tuoi consigli? Chissà. Ma non posso seguirli tutti: la dissidenza con te è la frattura utile alla crescita e alla separazione dal tuo grembo, che per me era materno più che paterno. Ma c’è, c’è un dissidio che stride nella mia mente: non è neanche possibile rinnegare le proprie origini; non è neanche possibile vivere, dimenticando la propria essenza e il proprio spirito: la mia umanità non può rinnegare la bellezza dell’arte e della musica, di cui risuonano i secoli passati. La mia umanità non può rinnegare se stessa, altrimenti è destinata al suicidio. 

Ora voglio una pasticca, e un’altra ancora. Paroxetina, nicotina e benzodiazepine nel benzene disio di sognare la frenesia del mio estraneo deperire: ne voglio di più, ancora altre, ecco, amor che nella mente ancor ragiona di questi demoni della vera libertà, che conducono laddove la vita è migliore, più limpida e più pura. Prendiamole tutte perché amo la vita, perché non vedo l’ora di colorare la mia illusione che i colori esistano davvero. 

In una frenetica riduzione che tutto annichilisce, avverto ora un nuovo fenomeno: scomposizione e semplificazione di numeri che battono ali e spirito in una diade che scarnifica la loro semantica. Avverto ora la scomposizione di note dal vortice frenetico di un sintetizzatore elettronico. Un sintetizzatore che sintetizza note e proteine fino a staccarle dalle floride catene di amminoacidi che furono. Avverto ora la frenesia di immagini che fluttuano veloci in una macchina da stampa. Avverto ora ghiandole, che inibiscono noradrenalina, serotonina, dopamina, ossitocina avvolte nell’ossessiva e ossequiosa ricerca di neurotrasmettitori da scomporre e fagocitare. Avverto ora un padrone che nella sua iperattività dei profitti mercifica e scarnifica il servo nell’impossibilità di immaginare un mondo libero. Avverto ora una rivoluzione che riavvolge e riarde pianeti attorno a un asse inclinato rispetto al piano dell’eclittica. Avverto ora una rivoluzione di pianeti che avviluppano frammenti e detriti verso uno spento nodo senoatriale. Il nodo senoatriale di un cuore che di impulsi elettrochimici non pulsa più. 

Ora voglio un’altra pasticca di antidepressivi, e un’altra ancora. Oh, io lasso, ora che muovo tutti i prieghi verso Elicona, perché Cirra risponda, affinché la fine della vita sia per me un intermezzo tra i paradisi artificiali del mio animo. Sto per trapassare e forse nell’aldilà c’è troppa, troppa dopamina e ossitocina, troppa felicità e troppa luce, troppa virtù nel tessere le lodi di gioia e amore, troppa virtù, troppa scienza d’amore; fenomeni che non appartengono alla mia natura. Ecco l’aldilà. Ecco una rosa fresca aulentissima, la rosa della poesia lirica, che introversa l’inverosimile visione di una bella melodia. Una dolce melodia nella mia stridente attesa della mia fine e della mia frenesia. Intanto, infrarossi e ultrasuoni di un sogno obliato. Un sogno obliato, che, sul fondo dell’oceano, una città sommersa nell’oblio della notte. O dolce Musa dagli occhi bluastri, rimani con me e canta gli ultimi suoni senza verbo nel mio pingue e pallido ultimo trapassare.

Medicine Bottle (2021)

Ancor ne li occhi, ond’escon le faville 
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso, 
guarderei presso e fiso, 
per vendicar lo fuggir che mi face; 
e poi le renderei con amor pace. 

Dante, Così nel mio parlare voglio essere aspro

Paroxetina, nicotina e benzodiazepine nel benzene disio di sognare la frenesia del mio estraneo deperire. Ecco, quei demoni della vera libertà mi conducono laddove la vita è migliore, più limpida e più pura. Voglio una vita più vera; perché non vedo l’ora di colorare la mia illusione che i colori esistano davvero. 

In una frenetica riduzione che tutto annichilisce, avverto l’impossibilità di trovare una sintesi tra le tendenze opposte della vita. Avverto scomposizione e semplificazione di numeri, che battono ali e spirito in una diade, che scarnifica la loro semantica. Avverto ora la scomposizione di note musicali nel vortice frenetico di un sintetizzatore elettronico. Avverto ora un sintetizzatore, che sintetizza note e proteine fino a staccarle dalle floride catene di amminoacidi che furono. Avverto ora la frenesia di specchiate immagini, talvolta allungate, talvolta rotonde, talvolta aguzze, che fluttuano veloci in una macchina da stampa. Avverto ora ghiandole, che inibiscono i miei neurotrasmettitori nell’atto di scomporli e fagocitarli. Avverto ora una rivoluzione di pianeti, che avviluppano frammenti e detriti verso uno spento nodo senoatriale. Il nodo senoatriale del mio cuore, che di impulsi elettrochimici non pulsa più. 

Muovo tutte le mie preghiere, affinché la fine della vita sia per me un breve intermezzo tra i miei artifici. Sto per trapassare e forse nell’aldilà c’è troppa, troppa dopamina e ossitocina, troppa felicità e troppa luce, troppa unità tra gli elementi chimici della natura; fenomeni che forse non appartengono alla natura umana.

Ecco l’aldilà. Ecco la vera vita. Ecco una rosa fresca aulentissima: la rosa della poesia lirica, che introversa l’inverosimile visione di una bella melodia. Una dolce melodia nella stridente attesa della mia frenetica fine. Intanto, infrarossi e ultrasuoni di un sogno obliato. Un sogno, che, sul fondo dell’oceano, una città sommersa nell’oblio della notte. O dolce musa dagli occhi bluastri, rimani con me e canta gli ultimi suoni senza verbo nel mio pingue e pallido ultimo trapassare.

Electric Funeral Reprise (2021)

Una casa avvolta nel buio. Mi giro e vago per questi corridoi. Aria fresca sfiora la stanza livida di umori grigiastri. Aria fresca ammuffisce tra pollini sospesi nel vuoto e funghi pluricellulari. La rodospina dei miei occhi è sospesa nella visione funerea della mia triste dialettica.

Ora ti chiedo? Che cosa sei per me, mio caro nonno F.? Sei forse la camera in cui giacqui nella dolcezza dei miei tristi sogni? Sei forse la camera della mia frenesia, che vaga nell’immersione di uno psichedelico tremore? Sei forse la camera in cui siedo al buio; la camera che risuona di sprezzanti disarmonie? La magione della mia arte opaca è, in verità, un viluppo di colori compulsivi nella dialettica del mio triste spirito. 

La luce fendente di una luna gelida trapassa con i suoi spiragli il salotto dove insieme giacemmo nell’illusione della nostra breve esistenza. Caro nonno, credimi, credimi, mi vorrei rifugiare tra le tue braccia, ma stasera, stasera mi sento così solo quasi da sentirmi in compagnia del nulla. Sono in cerca di una camera, in cui di rifugiarmi dai mille spettri della mia solitudine; mille spettri, che mi inseguono e mi chiedono conforto, mi cercano e mi chiedono di fargli compagnia; mille spettri di accecante bagliore, che abbagliano il mio delirio, tremante di un sincopato olocausto, che vibra nella mia mente piangente. 

Ora nonno, parlami, nonno, dove sei? Non riesco a piangere. I miei occhi sono ormai consunti da lacrime, che non hanno più vigore. Lacrime, che seccano prima di poter splendere nei miei occhi. La musica del dolore è così stridula, che, nel rifrangersi dei suoi infrasuoni, non odo nient’altro che frastuoni.

Tanto tempo fa sapevo piangere e il mio pianto disegnava una musica così bella, che avrei voluto riposare in eterno nella sua bellezza. Io ti guardavo, sì, con le lacrime agli occhi. I tuoi occhi pallidi e singhiozzanti della tua preoccupazione. I tuoi occhi così simili ai miei, che in uno specchio mi hanno avvolto. Io mi allontano da te e tu, persistente, mi segui ovunque.

«M., che cosa c’è? Che cosa ti succede?» 

«Ho sbagliato a ignorarti. Ho sbagliato. Non voglio che te ne vai, non voglio» ti ripetevo, quasi singhiozzante. 

«Non ti preoccupare, il nonno, il nonno campa parecchio, se tu lo vorrai far campare. Sai, M., in questa tua autocommiserazione stai affondando e affondando sempre di più nel nonsenso della vita. In una vita che fluisce come un torrente impetuoso, che tutto travolge e nulla lascia dietro di sé. Non affondare, non affondare e rimani qui, rimani qui ad ascoltare le vibrazioni della vera bellezza con me.»

«Io non capisco, sto diventando sempre più chiuso, serrato in un incubo, in una notte, che perpetua fluisce nell’attesa di un mio risveglio. Lo so che, fin quando non finirà la terribile notte della vita, io sarò destinato a essere sballottato sempre di qua e di là.» 

«Siamo tutti sballottati, ma dobbiamo resistere. Ascolta la Natura, ascolta i dolci canti che ispira in questa serata. Non c’è nulla, nulla che possa alleviare questi tempi oscuri, se non l’amore per la Natura. Ascolta la beatitudine di quest’attimo; ascolta la pace di quest’istante; ascolta la sua bellezza, che tocca il tuo corpo con la mia mente. La Natura, la Natura mi dice che devi lottare nella beatitudine della sua eterna pulsione di vita.» 

«La mia volontà è debole, nonno. La Natura è diventata elettrica: fili e cavi di plastica che mi avvolgono in spirali di rame e ruggine. Come sconfiggere, come sconfiggere lo spirito del tempo, che ha spezzato l’arte sotto il suo giogo? Come sconfiggere lo spirito del tempo, che tutto spezza e niente sottrae alla forza centripeta del suo vortice infernale?» 

«Anche l’elettricità è un fenomeno naturale. Se solo tu potessi farla parlare nella sua vera essenza di ambra e ambrosia. Non parlare più, non parlare più e resta in ascolto. Non cercare più nulla di artificioso e innovativo al di fuori di te stesso, ma rinnova te stesso. Fai parlare gli elementi della natura, che in te stesso fremono nell’attesa di abbracciarti. Non rinunciare, non rinunciare alla libertà della vera bellezza. Non importa se lo spirito del tempo ti ha serrato ogni opportunità di farti ascoltare, perché là c’è, là c’è la più bella ninfa che si possa desiderare, immersa nella sua nudità, immersa nella sua bella nudità, pronta a cantare e a risuonare del canto che le ho insegnato. Non deturparla con i liquami e i rottami dello spirito del tempo.

Non chiudere la tua mente. Non spezzare la tradizione, che ha avvicinato la minuta umanità alla divina eternità. Non dividere gli emisferi della tua mente, come quelli di un cieco o di un sordo, che non possono o non vogliono più sentire. Non ti perdere in frammenti e in scaglie di caleidoscopici vortici, inabissati tra carta straccia, dadi, numeri e cabale babilonesi. Non ti perdere in vani artifici, che al posto della luce del sole disegnano gemme pallide e languide. Non ti perdere in vani artifici, pensando di dover distinguerti per forza dai tuoi avi e dai tuoi maggiori.

Non ti perdere, inoltre, nel fetido vortice che ha il nome di Commercio, perché questo nome intinge i suoi responsi dal sangue delle nazioni e delle genti. Non ti perdere in vane speculazioni, che avvolgono e riavvolgono quegli automi, poco umani, in servi di un ritmo ossessivo, che fa loro omologare, mercificare e liquefare il soave incubo della vita. Quella è la vera omologazione. L’arte non può e non deve essere omologata. L’arte, quella annota le sue dolci note nell’armonia degli elementi, è sempre molteplice nelle sue espressioni, ma unica nel tendere all’essenza della bellezza.

Caro M., io ho vissuto, e ho vissuto tutti gli attimi, gli amori, i dolori, le notti più buie e più lucenti, ma ho vissuto e l’ho fatto a modo mio, ascoltando la levigata voce della Natura, che mi chiedeva di abbracciarla, di accarezzarla, di rimanere abbandonato tra le sue braccia. Mai più ho vissuto come quando ho esultato amandoti, e ricordati per amor mio di non essere succube dei padri padroni e di nessun totem, che possa uccidere i tuoi veri istinti.» 

«Mi manca una certa naturalezza. Mi sono voluto divincolare dall’autorità patriarcale, che è il totem della mia castrazione. Forse è per questo che non ho seguito i tuoi consigli? Chissà. Ma non potevo seguirli tutti: la dissidenza con te era la frattura utile alla crescita e alla separazione dal tuo grembo, che per me era materno più che paterno. Ma c’è, c’è ancora un dissidio che stride nella mia mente: non è neanche possibile rinnegare le proprie origini; non è neanche possibile vivere, dimenticando la propria essenza e il proprio spirito: la mia umanità non può rinnegare la bellezza dell’arte e della musica, di cui risuonano i secoli passati. La mia umanità non può rinnegare se stessa, altrimenti è destinata al suicidio.

Come potrò spegnere tutti i dialoghi e tutte le risposte che mi mancano, ora che la tua visione sta per svanire? In questa notte oscura mi sento, mi sento che non c’è modo per dirti addio. Lo so che molti amori prima di noi hanno sofferto la stessa lontananza, e lo stesso ancora stanno implorando conforto e vendetta.
Dopo che la tua vita si è spenta, la Natura ha temuto di morire, ma la foresta, gli alberi e il bosco ancora cantano lievi e dolci sinfonie nel tuo ricordo. E la tua essenza vivrà per sempre.

Purtroppo, da quando si sono spenti il tuoi begli occhi all’ombra dei miei lamenti, ho capito che il tempo è irreversibile. E ora vago in un tempo e in un ritmo metallici, che dissolvono i miei sospiri nell’eternità del vento. Quando cammino, appena giro l’angolo so che non ci sarà il tuo viso. Però i miei passi sperano ancora di ritrovarti lì, da qualche parte. I miei passi sono il ritmo per la musica del tuo viso, incastonata tra le tue belle guance.

 E ora rimango in silenzio ad ascoltare, in tuo onore, l’ultima melodia della Musa che mi ha lasciato in eredità. Una Musa, che, prima di sparire, ci ha lasciato un’ultima bella melodia, singhiozzante per la nostra perduta umanità.» 

Marco Di Caprio

Arrivando da qualche parte ma non qui [2020]

Il processing di delay del dolore bringa stringhe di stringenti strida

Marco Di Caprio

La mia mente sconvolta dal dolore è l’interruzione di un segnale tra spastici grovigli di suoni psichedelici. Raffinato pastiche di domande sussurrate in assenza di atmosfera. 

Me barcollante tra grovigli di luci multicolori a intermittenza: illusioni nell’inesistenza di colori e di suoni. Le onde elettromagnetiche del caos attivano sensori, sentiti sonoramente nel sentiero di una vana ricerca sincopata, simpatetica, simpatica. Sistema simpatico, apatico, simpatetico, patetico. 

La mia mente sconvolta dal dolore è reclusa tra i poli opposti di un’eterna sfasatura, appiattita nell’illusione dell’esistenza. È armonia in fuga verso la dissonanza. È una contrappuntistica chiusura in una lacerante antinomia di parole oscure: chiuso e aperto; alto e basso; vicino e lontano; tesi e antitesi, ma non sintesi. È un sintetico fluire tra sussultanti rivolgimenti. 

Me misero, bramo solo una goccia d’acqua; me misero, interrogo sfasature tra gli opposti transistor della mia mente, in un sussulto tra scosse elettromagnetiche. Me misero, interrogo scosse opposte, tra i transistor elettromagnetici della mia mente, inviluppati in un elettrico sussulto. Ascolto, sento non so che, non so dove sono, da qualche parte, ma non qui: Dio, se ci sei, aiutami. 

Involto nel vacuo di una stanza dalle pareti trasparenti, riavvolta, rotolata, raggomitolata, spasmodicamente contorta in arpeggi fluorescenti; c’è una fine tessitura contrappuntistica nel placido avviluppamento di un simulacro obliato, chiamato foglio. 

La forza dei miei legami sinaptici, sconvolti dal dolore, è svanita nella dissoluzione di onde variopinte. Percepisco ora sussulti elettromagnetici tra sinapsi appiattite in impulsi simpatetici, in apatica intermittenza. Percepisco ora una corrente alternata e continua nella disarmonia del mondo; il ritmo del coito, disiato simulacro tra le spastiche onde di un infinito fluire di magma raggrumato. Raffiche di spari sospesi sul sogno della vita. La vita, che giace sul fondo di un vano decadimento di materia, che combatte entropia. La vita, che rincorre l’inevitabile dissoluzione della materia.

Rincorro il breve sogno dell’arte in contrappunto tra sinapsi intessute in un fine assalto psicotico. Nel sole abbagliante di questa stanza, ho intravisto un’indolenza tra dolenti fremiti, nello stridio del mio celeste lamento. I miei lamenti, intravisti tra indolenti fremiti, nel sole celeste di una mattina stridente. E tra stridenti increspature scompongo immagini infinite di un eterno passato; passate immagini, nell’eterna increspatura di un gioco musicale infinito, vano, vacuo. Vanificare evanescenti vagiti in un vacuo viaggio, tra le increspature di un vortice mai finito, inviluppato tra grovigli gorgheggianti. 

Sono arrivato da qualche parte, ma non qui. Non sono qui. Sono nella mia mente. Questa non è la mia mente.

Marco Di Caprio

Scherzo Blues [2020]

Alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba

Indovinello veronese sul processo della scrittura

L’arte è una rincorsa su un prato oscurato, lo sguardo su una scia luminosa. Mi sposto e ne guardo il risvolto. L’orlo di un calice, amaro vuoto. Inghiotto i veleni della città e muovo un carnevale di luci stridenti: occhi stanchi, primati che corrono squarciati dall’anidride solforosa e dal monossido di carbonio.

Ho una libertà da straziare, ho soffio radioattivo. Una rincorsa nella foresta di travi d’acciaio e plexiglas frantumato. Luce in un prato iridescente. Carnevale di sguardi, caleidoscopio vuoto di stridii. E’ la mia mente; è qualcos’altro: è una res extensa, res intensa; homo interior, homo exterior.

L’arte è l’indefinito pallore nella freschezza dell’aria che respiro. Immagine ricorrente, frenesia dell’eterno ritorno, danza frenetica nell’indifferenza dei passanti, disfunzione dall’amigdala e disordine bipolare. Un solco nella mente che ara spine, luci verdi e un transistor. E’ un congegno ad orologeria, giocattolo dai mille usi pronto a cadere in disuso.

Continuo a correre luminoso verso un risvolto: i prati del mio foglio ora sono su un delicato frastuono, nel bianco sfavillante dei marmi. Sfavillante svanisce l’inutile rincorsa nel vuoto.

Marco Di Caprio

Electronic Sounds

Quello che penso è già stato tutto scritto o detto da altri? O forse c’è ancora altro da scoprire? C’è qualcos’altro oltre questi transistor e queste valvole, che mi inchiodano a terra, dove ramifico come un cipresso?

Ora che un ritmo industriale, quasi ancestrale, assopisce la mia vista, un impeto elettrico parla di nuovo ai miei sogni: ti sei dimenticato della natura, che aspetta di essere meglio ascoltata. Dovrai ascoltarla per bene e così come canta dovrai intonare. Poi tornerai in mezzo agli uomini e proverai a ricordare non la sua canzone, perfetta e irripetibile, ma il ricordo della sua bellezza. Ma sì.

Corro ad abbracciare la natura, ma più la guardo e più la vedo riflettere la mia immagine deforme, specchiata nei suoi occhi elettronici.

Marco Di Caprio

It’s All Too Much

«It’s all to much for me to see
A love that’s shining all around here
The more I am, the less I know
And what I do is all too much»

(The Beatles, It’s All Too Much, 1967)

Ero in un palazzo grandissimo, a tre piani, una sorta di albergo, anzi un albergo lussuoso. Una scala a spirale rivelava le vertigini di uno strano timore: perché mi sentivo così strano? Eppure poche volte nella vita avevo visto un posto così signorile e così elegante. Un led luminoso attaccato alla parete rivelava gli eventi del giorno: al primo piano si teneva il concerto di Gigione e Jo Donatello, due cantanti neomelodici molto famosi nelle zone nostre. Argomenti sessuali o religiosi in canzonette triviali e geniali nella loro ignoranza. Entro nella sala cinema del primo piano, gremita fino all’orlo: una parte della folla era seduta, ma la maggioranza era in piedi a fischiare e schiamazzare. Gigione e Jo Donatello si esibivano cantando un’ode a Santa Rita, che mi stava facendo ridere: stavo dimenticando per qualche attimo le vertigini del mio strano timore. Siccome Gigione voleva esprimere un senso di tragicità e di pathos per poter cantare degnamente il senso del divino, ora chiamava a supporto sul palco una figura in nero, un’eminenza oscura, dai lunghi capelli neri e gli occhiali da sole. Questa losca figura si faceva strada in mezzo alla folla impugnando una croce rovesciata. Oh, ma chi è? Mi sembra di conoscerlo. Quello è Ozzy Osbourne. Gigione spiegava alla folla che voleva un neomelodico a supporto, qualcuno che avesse la voce simile a quelli che a Pasqua, sui carri e sui furgoncini, cantavano le lodi della Madonna dell’Arco nei pressi di Napoli. E proprio questo musicista gli sembrava eccellere nello stile del canto religioso lamentoso e popolare tipico dei fedeli della Madonna dell’Arco. Ozzy stava cominciando a intonare a cappella una canzone dei Black Sabbath, forse N.I.B o Electric Funeral. Quando è bravo questo cantante: ascoltate quanto è sentimentale e quanto è religioso, cari amici, diceva Gigione, che, non capendo le sue parole, pensava volesse intessere le lodi alla Vergine.

Il concerto si interrompeva. Scendi dal palco, Gigione, vai via, diceva la folla. Anche tu, pagliaccio con la croce rovesciata, vai via. Un losco individuo, che si era annunciato come imprenditore e filantropo, si avvicinava al palco e indicava con un dito lo schermo in fondo: guardate qui l’ immagine della Madonna di P., esiste e l’ho filmata. Forza, gente, facciamo una colletta per la festa della Madonna di domani.

L’imprenditore, poi, era sceso tra la folla in delirio: la gente, con alcuni coltelli, cominciava a tagliarsi sulle braccia e le guardie, con delle vaschette, si avvicinavano per raccogliere il sangue. Alcuni medici in una lunga tunica bianca, come sacerdoti del male passavano nella folla per medicare le ferite. Un fremito mi assale, ma non sembro impressionato dalla crudezza di quella scena.
La Madonna proiettata sullo schermo era Iside trionfante, dalla tunica cristallina, con un iPhone in mano, mentre si faceva un selfie. Applausi, applausi intermittenti e poi ripetuti in un boato. La folla cominciava a urlare e strepitare. Io non riuscivo più a staccare gli occhi dallo schermo: non me ne sarei andato per nessuna ragione al mondo.

Io non me ne ero manco accorto, ma il mio amico James Valentino era lì accanto a me, mi fissava e mi tirava per un braccio. Faccio per salutarlo, ma lui mi strattona ancora più forte.
Questi so’ mariuoli, andiamocene. Ci vogliono far credere alle favole. Come può un uomo di scienza come te credere a queste cose?
Gigione, intanto, era sceso tra la folla. Veniva proprio verso James Valentino, l’unico perplesso in quella folla strepitante, e si avvicinava incuriosito a lui.
– Caro, sei l’unico che non applaude? Non credi alla Madonna? Te ne vuoi andare?
James non ha risposto.
– Che fate, Ve ne andate?
Gigione sporgeva il capo verso di lui per vedere se stava bene.
– Caro signor Gigione, io non me ne andrei, ma James non sopporta la religione. Penso che ce ne andiamo.
– Sei un bravo ragazzo a differenza di questo qui – mi ha detto Gigione – Cercate di rimanere. Dopo canto di nuovo.

L’immagine della Madonna, intanto, sfumava tra le onde cristalline della mia visione. Il grande schermo rivelava una pubblicità: rimanete con noi, cari telespettatori. Nella villa presentazioni di libri, eventi culturali, musica e serie TV. Rimanete con noi.
– Hai visto, James? – gli ho detto – James, possiamo pubblicizzare i nostri libri. Hai capito?
James Valentino era frastornato: i suoi occhi cerulei si stavano trasformando in un arcobaleno di luci oscure, un tripudio all’insofferenza verso la vita. Quella vita.
– James, non fare così. Ce ne andiamo se non vuoi rimanere.
Nella folla siamo stati strattonati a destra e a manca, poi ci siamo avviciniati verso l’uscita. Dei bodyguard, con la divisa dei carabinieri, ci hanno sbarrato l’ingresso.
– Possiamo uscire? – ho la voce tremante.
– Motivi di salute, lavoro o necessità? – hanno chiesto i bodyguard, indispettiti.
Ehm, voglio inventare una scusa. Ma quale scusa? In fondo è verità.
– Salute, il mio amico non si sente bene. Il mio amico è pallido.
– È stato contagiato dal virus? L’ha fatto il tampone?
– Sì, è negativo.
– Allora, aspettate. Chiamo l’ambulanza.
James stava per andare su tutte le furie, non voleva attenzioni e mi strattonava di nuovo per un braccio.
– Si figuri, lasci stare, agente. Tra poco starà meglio.
Intanto Gigione si stava avvicinando al palco, facendosi strada tra la folla, con un microfono in mano.
– Forza ragazzi, tutti a cantare in coro, o coso nun s’aiza, e mo comm aggia fa!
Uno dei carabinieri lo strattonava. Gigione ha lanciato un gemito nervoso.
– Oh, guagliò, mo è il turno nostro, no?
– No!
Un altro carabiniere gli ha detto:
– Ora basta con l’arte e la musica. Le visioni religiose non sono finite. Tra mezz’ora poi c’è il telegiornale. Se volete aspettare il vostro turno per esibirvi, voi artisti potete accamparvi sul pavimento.
Il carabiniere ha indicato alcune piattaforme rialzate che fanno da contorno alla sala. Altri artisti, musicisti, opinionisti e blogger attendevano il loro turno, seduti a terra, su asciugamani d’oro e di perle.
Un varco si è aperto tra la folla e io ho indicato a James la piattaforma con tutti gli artisti.
– Ti piacerebbe finire lì, tra quelli lì? – gli ho domandato con euforia.
– In mezzo a quei cialtroni? No. Preferisco non essere chiamato artista.
– Perché non modifichi il tuo libro, lo rendi più commerciale e provi la scalata al successo?
– Ci vogliono i soldi per pubblicizzarlo. Tu ce l’hai?
– No
– E neanche io. E poi mi direbbero di cambiare il libro per venderlo, e io non voglio.
– Vabbè, andiamo su, al secondo piano.
I carabinieri fermi all’ingresso mi hanno ascoltato, hanno aperto la porta e ora ci scortavano verso il secondo piano. Ancora quella scala a forma di spirale, ornata di tappeti e di pietre preziose. Mentre salivo, uno sguardo verso la tromba delle scale: le vertigini, ora più consistenti, fremevano attraverso il midollo spinale e diventavano spine nella rosa del mio racconto. Volevo uscire: l’atmosfera di questo palazzo, per quanto lussuoso, stava spegnendo le mie forze e stava annientando il mio respiro. Come sarebbe bello uscire. Ma vedo che qui nessuno vuole uscire. Tutti sono felici di rimanere qui, a quanto pare. Se dico agli altri che voglio uscire, mi daranno del pazzo.

Il secondo piano: una lussuosa hall con un grande bancone dove si servivano liquori di ogni tipo, ma principalmente caffè ed energy drink. Il vociare fitto di quegli spettri quasi inconsistenti, seduti ai tavolini, opportunamente distanziati l’uno dall’altro, era così pungente che la mia mente era punta da corde prima intermittenti, poi sempre più tese.
– Mi fa male la testa, James, il mio sistema nervoso centrale non risponde bene, la tensione disfa la parallasse del mio fine sentire.
– Non ti capisco, M. Ma stai parlando in codice?
– Perché?
– Caro M., dici sempre troppe parole che non portano a nulla, invece dovresti imparare a tacere ogni tanto.
Attraverso il bancone la suadente voce di una ragazza all’improvviso si spegneva e, con un accento a me familiare, strideva un acuto vibrato.
Accattatevi i biglietti ra lotteria. Domani abbìa n’ata vot u campionato. Iucatevi a bulletta.
Intanto alcuni operai, vestiti con tute da lavoro, si avvicinavano al bancone, reclamando di voler giocare la schedina. Alcuni schermi appoggiati al di sopra del bancone trasmettevano immagini porno: gli operai fissavano gli schermi, mentre bevevano, estraniati dal mondo.

Alcuni giovani, una decina circa, i cui volti erano nascosti da mascherine nere, passeggiavano nel corridoio, sfoggiando le loro camicie bianche: si passavano spesso le mani sulla testa per aggiustare i capelli rasati ai lati e ogni tanto agitavano le loro collane di falso oro per mostrarle alle ragazze sedute ai tavolini. Ai loro polsi ho scorto un braccialetto di metallo fosforescente: James mi faceva notare che quello il pass per entrare nelle aree di lavoro come operai. Ho guardato quei volti oscuri e di poche parole con molta curiosità. I ragazzi sono appoggiati a una ringhiera di vetro, che apriva un baratro al centro del piano. Appoggiati al baratro, i ragazzi incrociavano le gambe, rivestite da pantaloni aderenti, forse di velluto, molto stretti alle caviglie. Fissavano due o tre ragazze sedute ai tavolini di fronte, che erano attaccate ai loro dispositivi per farsi delle foto in pose strane: occhi chiusi e la lingua di fuori. Le femmine raramente davano un’occhiata ai maschi, ridendo, forse prendendoli in giro o forse imbarazzate. Uno dei ragazzi mostrò una ferita alla mano, che ancora grondava di sangue; forse una ferita riportata sul lavoro. O forse si era tagliato di proposito, come la gente che aveva offerto il suo sangue alla Madonna di P. nella sala cinema del primo piano. Una delle ragazze, guardandolo, si leccò le labbra in un impeto di erotica approvazione. Nessuno accennava a una parola, nessuno accennava un contatto, nessuno osava accennare a rompere la struttura di quel rituale.

– James, perché quel tipo mostra tutto quel sangue alla ragazza? – ho chiesto al mio maestro.
– È una forma di corteggiamento, caro M. In questo palazzo non ci sono soldi ma c’è solo sangue. Il sangue funziona come merce di scambio, proprio come il denaro. Forse quel tipo vuole fare vedere alla giovane di essere il più ricco e il più potente dei suoi compagni.
– Mah… questi … questi sono pazzi – ho accennato nello spasmo della nausea, che in crescendo si diffondeva dallo stomaco allo stridio dei miei nervi.

A un tratto uno dei ragazzi appoggiati alla ringhiera diceva ai compagni di fare presto perché avevano finito il turno di lavoro da troppo tempo: dovevano presentarsi giù alla sala cinema in tempo per il telegiornale.

– Ma, scusa, James? Loro possono uscire da qui? Gli operai dico?
– No, caro. Se non hanno il virus, devono rimanere qui.
– Ma dove lavorano?
– C’è un padiglione poco più avanti. Ogni mattina si svegliano, escono dal dormitorio del terzo piano e vanno a lavoro. Poi di sera escono, vanno in sala cinema e a una certa ora tornano a dormire.
– Mah, che bella vita. Quindi al terzo piano ci sono i dormitori?
– E non solo.
– Come, non solo?
James si è stretto nelle spalle.
– Perché vuoi saperlo, M.? Perché sei così masochista?
Io pregavo James di mostrarmi il terzo piano, ma lui era riluttante. Forse voleva proteggermi da un segreto che avrebbe potuto annientarmi. O forse quel segreto avrebbe potuto darmi troppa euforia da spegnere la mia voglia di fargli altre domande. Eh sì, perché, secondo me, James non lo ammetteva, ma gli piaceva farmi da maestro e darmi spiegazioni.
Abbiamo salito l’ultima rampa di scale che conduceva al terzo piano.

Urla, stridii, schiamazzi, suoni e voci prima lievi, poi rauche mi rivelavano contraddizioni di colori e di suoni, che da un lato mi ripugnavano, dall’altro mi attraevano. Quella musica così dissonante rodeva così tanto la mia coscienza che non potevo smettere di ascoltarla. Ah povero me. Un lungo corridoio con porte tutte uguali sulla sinistra e finestre tutte uguali sulla destra. Alcune figure vestite di bianco, i medici, passavano con passo inquieto e felpato verso di noi. Erano rivestiti da capo a piedi di una tuta bianca e avevano un elmetto con una visiera trasparente. Avevano delle siringhe in mano con aghi spuntati. Attraverso la vetrata dei loro sguardi un sorriso stampato sul volto. Più guardavo quel sorriso e più mi sembrava un ghigno spaventoso. Un led luminoso fendeva il soffitto e le pareti: attenzione, pericolo contagio.
– Ecco, tu mi hai chiesto che cosa c’è al terzo piano. Ecco cosa c’è.
– Ma… Ma… Allora i malati li tengono qui?
– Ah sì, ora l’hai scoperto?
I medici ci fissavano e ci intimavano di indossare le mascherine. Ci hanno chiesto come abbiamo evitato i controlli e dov’era la nostra cartella clinica. Ma non eravamo malati. James glielo ha detto. Non siamo malati. Siamo giornalisti e vogliamo testare le loro cure miracolose.
– Non si potrebbe, ma per voi faccio un’eccezione. Siete giovani e dovete capire che la profilassi è importante per evitare il virus. Stanza numero tre, seguitemi, prego.
Alcuni carabinieri sono usciti da non so dove e ora ci scortavano verso un piccolo ingresso: una porta verde con un pomo a forma di banana. Hanno inserito una scheda in un lettore LED accanto alla porta: i raggi laser a guardia dell’ingresso si sono attenuati e la porta si è aperta.

Un’altra sala cinema, ma più piccola, con un altro schermo imponente e un’altra calca: stavolta però ogni individuo era seduto a terra, contenuto da una campana di plexiglas pressurizzata. Non potevano comunicare con nessuno se non attraverso il permesso delle guardie, che aprivano i loro microfoni, se lo ritenevano opportuno, e li facevano comunicare con le altre campane. Distanziamento sociale. James mi spiegava che tutte le conversazioni venivano registrate e tenute in archivio, nel caso i pazienti avessero infranto la legge con i loro discorsi.
– Ah sì, e la privacy?
Una guardia ha sentito la mia domanda e si è avvicinata a me.
– Lei ha forse qualcosa da nascondere che non possiamo sentire?
– No, no, per carità, agente.
Speravo di allontanare la guardia con queste parole. James mi ha indicato la scena con un dito:
– Ecco, qui i pazienti trascorrono la quarantena nel distanziamento sociale più assoluto.
– Ma è terribile. E lo schermo del cinema in fondo alla sala che cosa proietta?
– Quello non è uno schermo, ma è un rivelatore di paure. A turno, ogni persona in quarantena si avvicina allo schermo. I dottori gli infilano elettrodi sul capo e lo schermo, senza esitazione, proietta le sue paure inconsce, che si materializzano come per magia.
Io rimango fermo: la bocca mi si era serrata in in terrore mortale. Provavo a digrignare la mascella e tutto d’un tratto la bocca mi si serrava in un trisma e in uno spasmo muscolare. Un grido di dolore.
– aaah
– Tieni la bocca aperta e lo spasmo va via – Mi ha detto James.
– Voglio provarlo
– Ma che dici? Lascia perdere, M. Tu sei troppo sensibile.
– Voglio provarlo.
– Sempre il solito fatto. Sempre il solito masochista.
Mi sono avvicinato al palco che ospitava il grande schermo. Il dottore che ci ha incontrati nel corridoio mi ha sbarrato il passo, e avvicinando un macchinario con degli elettrodi mi ha detto:
– Bene, ora le infiliamo questi e potrà così trasmettere le sue paure sullo schermo. Le diamo anche un sacchetto nel caso dovesse vomitare.
Io mi siedo su una sedia e aspetto. Lo schermo è nero, poi alcune spirali e alcuni vortici danno inizio alla trasmissione.
– Nel frattempo le inietterò un calmante per evitarle reazioni ben peggiori.
Sono molto vicino allo schermo e intanto lo schermo diventa trasparente: onde del mare che quasi riesco a toccare. Nella loro trasparenza si rifrangono al tocco delicato della mia mente.
Ecco subito l’immagine di un pipistrello, che appollaiato su un ramo a testa in giù ha la faccia di un cane. Apre la bocca e si lecca i baffi a destra e sinistra, senza mai fermarsi. Qualcuno avvicina una mano per accarezzarlo. Una mano? E’ la mia mano: le immagini seguono il mio punto di vista e lo sguardo del mio campo visivo. Il pipistrello mi morde, assatanato come il diavolo in persona, mostrando i suoi denti aguzzi da creatura dei più profondi inferi. Aaaah. Un’ovazione in sala: quelli in prima fila applaudivano e fischiavano, mentre altri, forse quelli in ultima fila, urlavano e si dimenavano. Poi subito dopo l’immagine di un cane a due teste: un dottore avvicina una scodella piena di latte e i cani cominciano a bere. Spunta di nuovo la mia mano, già sanguinante per la ferita inflitta dal pipistrello. Io faccio per accarezzarli, ma si avvinghiano al mio tocco e mi spellano quasi a morte. E poi, oddio, poi che vedo! Una scodella con teste crude di topi morti, sgozzati, e io riconosco di nuovo la mia mano sanguinante. Con un cucchiaio le prendo. Io con un cucchiaio prendo le teste mozze dei topi e le avvicino sempre di più all’obiettivo della telecamera. Aaaaah, nausea, spasmi, contratture muscolari. Mi accascio e vomito, ma il dottore mi dà uno schiaffo. Nel sacchetto, nel sacchetto. Prendo il sacchetto e vomito. Vorrei chiudere gli occhi, ma non ci riesco: qualcosa me lo impedisce, ma che cosa? Poi basta, poi gli dico basta.
– Me ne voglio andare, fatemi uscire, fatemi uscire!
Mi divincolo e loro con una siringa mi iniettano qualcosa, e poi ah, visione annebbiata: gli archi e e gli ostinati stridii alle tempie si attenuano, poi si spengono in un accordo legato, più tenue e sottile, sempre più lieve. Il dottore mi ha sfilato gli elettrodi.
– Mah, la sua reazione alle sue paure è un po’ troppo anormale. Forse ha contratto il virus. Dobbiamo tenerla qui per qualche accertamento.
– Qui? Accertamento? No, no, voglio uscire.
– Glielo spieghi lei, signor…
– Valentino – lo ha preceduto James, che si è subito avvicinato a me con passo felpato.
Quelli che stavano in ultima fila, mi ha spiegato James, erano i pazienti più gravi, che non accettavano di vedere scene forti e non si rassegnavano davanti alle loro paure. Poi c’erano quelli tenuti in osservazione, che erano a volte terrorizzati e a volte no, e quelli trattati con i farmaci, in via di guarigione, che amavano le immagini più violente e ripugnanti.
– Ma tu non le ami quelle immagini, vero James?
– No, ma non le disprezzo. Mi sono indifferenti.

Proprio mentre stavamo affrontando il discorso, si è sentita una sirena in lontananza, prima intermittente, poi sempre più veloce e più veloce. Pericolo, pericolo. Evacuazione. Una voce metallica diffusa attraverso gli altoparlanti della sala cinema. I medici correvano su e giù, di qua e di là per la stanza. Le guardie armate cercavano di mantenere la calma e di fermare i pazienti che, seppure sotto le campane di plexiglas, battevano colpi e chiedevano di uscire.
– Ma che succede? Che succede? – ho chiesto a James, terrorizzato.
– È in atto il meccanismo di autodistruzione dell’edificio. Ogni tanto le macchine, i computer e i dispositivi si surriscaldano troppo e rischiano di bruciare vivi gli abitanti di questo posto, che non riescono ormai a vivere senza. Il meccanismo di autodistruzione misura la temperatura dell’edificio e, se è troppo alta, innesca un conto alla rovescia. Se gli scienziati, dal loro pannello di controllo, non riescono ad abbassare in tempo la temperatura dei dispositivi e dei computer, il meccanismo fa esplodere delle testate atomiche per evitare agli abitanti una morte lenta e dolorosa a causa dei loro tanto amati dispositivi.
– Ma che stai dicendo? E dove scappano tutti?
– La gente, presa dal panico, prova a scappare, ma è inutile.
– Perché è inutile?
– Non puoi scappare. Le guardie rimangono sempre ai loro posti di blocco attorno all’edificio, anche quando l’allarme è attivo: questa è la terza volta in un mese. Chissà dove andremo a finire di questo passo.
– E allora basta, è meglio che moriamo anche noi. Deve esplodere questo posto di…
James mi ha trattenuto la bocca e mi ha strozzato le parole in gola. Dovevo stare zitto. Zitto, altrimenti se qualcuno mi sentiva poteva pensare fossi infetto ma asintomatico.

Alcuni amici di James, degli operai del secondo piano, si avvicinavano a noi: ci hanno visto passare e ci vogliono denunciare all’autorità giudiziaria per aver violato le norme di sicurezza. Ma ora erano in panico anche loro. Ci hanno preso per un braccio: ci volevano portare via di lì con loro. Ma dove?
– Toglietemi le mani di dosso, spioni – gli ho urlato io.
James ha preso uno di loro per un braccio. Forse c’era un modo per salvarsi: c’era un varco in fondo al corridoio che era usato in passato per avere rifornimenti dall’esterno. Si poteva accedere solo con una scheda di emergenza che lui aveva rubato una volta a un colonnello con l’inganno.
– Correte a salvarvi, io rimango qui.
Io pietrificato dal suo sguardo atono.
– Ma come, rimani qui? Rimani qui?
– Caro M., a differenza tua, ho smesso di credere al mito della libertà.
Gli operai mi strattonavano, mi mettevano una mano sulla bocca e mi portavano via con loro verso l’uscita di emergenza. Un lungo corridoio con alcuni varchi che sembravano nascondere una pellicola fatta di uno strano fluido rosa. Ogni volta che passavamo attraverso quei varchi, ah, ustioni, fiamme e fuoco che stridevano e avvampavano nei miei occhi. Gli operai mi tenevano per due braccia, pensando che io volessi scappare verso James Valentino. Ma io urlavo, urlavo e mi dimenavo, mi dimenavo e poi in fondo al corridoio le tenebre mi avvolgevano in un ghigno che mi richiudevano come in una bara.

Riemergo, spunto, singhiozzo e tossisco. Le immagini del mondo, prima sfocate e poi sempre più trasparenti e nitide, come il fruscio delle onde del mare. Ed ecco di nuovo la hall del palazzo, luminosa, invasa da suoni ossessivi: marcette militari, non so se nello stile della raeggeton o della trap. Suoni, che per quanto triviali mi sembravano la più geniale delle sinfonie. Ero sdraiato su una panchina nella hall, proprio sotto le scalinate a forma di spirale. Guardavo di fronte a me l’ingresso maestoso, fatto di vetri e specchi, che per quanto consunti stavano diventando iridescenti.
Una folla ballava e cantava, fusa in cerchio, accanto a me. Mi sono alzato barcollando e mi sono fatto strada tra la folla: ed ecco che il professore T., il mio professore di italiano e latino al liceo, si contorceva e si divincolava su se stesso come un folletto al centro della folla.
– Ma che sta succedendo? Che sta succedendo? – Chiedo a qualcuno.
– È lui! È lui il nostro Salvatore. Con il suo ingegno ci ha salvato la vita. Ha disinnescato il meccanismo di autodistruzione. Ora siamo salvi per sempre. Ehi, non sei contento di vivere senza più paura della morte?

Marco Di Caprio